martedì 1 marzo 2011
Kynodontas (Dogtooth)
E’ di sicuro un film che non può lasciare indifferenti e questo perchè ottempera in tutto e per tutto a quel sacro dovere che ogni opera d’arte, in questo caso cinematografica, ha nei confronti di chi ne fruisce: creare un cambiamento interiore nello spettatore dopo la visione.
Vincitore del premio Un certain regal a Cannes 2009, menzione speciale durante l’edizione 2010 del Trieste Film Festival, la seconda pellicola del regista greco Yorgos Lanthimos è un dramma sagace fondato sul paradosso che vede i comportamenti retrogradi di una famiglia come conseguenza della modernità.
Un padre e una madre fanno crescere (ma sarà corretto dire così?) i tre figli adolescenti – due femmine e un maschio – all’interno della loro villa, impedendo loro di uscire e di scoprire il mondo esterno. I ragazzi non sono minacciati, la situazione non è palesemente violenta, anzi, tra i confini della prigione domestica, essi sembrano liberi di muoversi e paiono avere un atteggiamento serafico nei confronti dell’ambiente in cui stanno, seppur limitato.
Il terrore verso ciò che si trova oltre il giardino è stato insinuato loro nel tempo, attraverso una macchinazione creata dai genitori in accordo fra loro.
E’ tutto perfettamente coerente e il senso di goffaggine e di ritardo quasi mentale che si percepisce è in realtà il risultato di questa coerenza che non prevede influenze né intromissioni da parte dell’esterno, a livelli per cui un micio intrufolatosi nel cortile, viene massacrato dal fratello con delle grandi cesoie perchè è un animale che si nutre soprattutto di carne di bambini, lacerandoli con le unghie e divorandoli coi suoi denti aguzzi.
L’atmosfera creata nel film è truce pur muovendosi nell’illusione e nell’inconsistenza dell’infanzia. I tre ragazzi, esattamente come bimbi, sono spugne e nella totale ingenuità si affidano unicamente ai genitori, che addirittura stravolgono i significati delle parole (a testimonianza della loro arbitrarietà) per mantenerli nello stato letargico in cui si trovano. Ecco allora che la definizione di mare è “una poltrona di pelle con spigoli di legno” e che per farsi passare il sale a tavola, si dice “mi passi il telefono?”, esempio che ancora ribadisce la negazione anche solo potenziale di un rapporto con l’esterno. L’apprendimento comunemente inteso è pertanto arginato.
Viene data vita a uno scibile nuovo, e vengono sostanzialmente creati dei matti che ne sono il diretto prodotto. Perchè, di fatto, l’impressione immediata che ci dà il film fin dalla prima scena – nella quale i tre ragazzi imparano appunto delle nuove parole – è proprio che esso sia ambientato in un manicomio e i colori chiari della fotografia alimentano da subito questo sospetto.
Certo, in casa non mancano né tv né videoregistratore, ma servono solo per vedere i filmini stile recita scolastica girati in famiglia. Ogni forma di comunicazione viene così demolita perchè strettamente vincolata all’ambiente e alle persone che lo abitano ed è quindi autoriferita. Tuttavia, come se l’intero mondo e non solamente il “nostro” facesse parte di noi, i ragazzi, avvertono il bisogno di varcare il cancello di casa e chiedono ai genitori quando sarà possibile farlo. La risposta è che saranno pronti ad uscire quando cadrà loro il canino destro (da cui il titolo del film)…
Ma dentro e fuori, non potendo per definizione esistere l’uno senza l’altro finiscono comunque per contaminarsi prima del tempo, in definitiva prima di quel mai auspicato dai genitori con la caduta del dente. E sarà il maledetto mondo esterno a intrufolarsi nella villa con l’arrivo di Christina – l’unica in tutta la pellicola ad avere un nome – , agente di sicurezza nell’azienda dove lavora il padre, il solo della famiglia a poter uscire. E’ lui ad accompagnarla con l’auto alla villa, ovviamente impedendole di vedere la strada.
Christina fa qualche extra prostituendosi con il figlio; a lei è quindi affidato il fondamentale compito di espletamento dei bisogni sessuali del ragazzo, il che, all’interno di questa follia, lo rende come una sorta di cane castrato che non necessita di scappare dal padrone non appena fiuta una cagna in calore. Ma Christina, lesbica latente, finisce per dare alla sorella maggiore dei film in videocassetta in cambio di prestazioni sessuali (leccate di “tastiera”) e la realtà entrerà nella vita di quest’ultima, proprio tramite un elemento di fiction. E’ la metacomunicazione cinematografica, è il cinema che parla di se stesso con il supporto di Rocky Balboa e Bruce Lee che ci farà approdare nuovamente al paradosso: la finzione, talvolta, è più autentica della verità che ci viene imposta. Christina, ovviamente, farà una brutta fine e spetterà ora a una delle sorelle prendere il suo posto con il ragazzo.
Alla fine, però, il sentore dell’inganno e l’urgenza della conoscenza avranno la meglio e la figlia circuita deciderà di togliersi da sola il suo canino andandosi poi a rifugiare nel baule dell’auto del padre, che andando al lavoro sarà complice inconsapevole del suo rilascio.
E’ qui, dunque, che potrebbe iniziare il riscatto, il lieto fine della storia; se non fosse che la storia stessa viene sospesa giusto quando ci rendiamo conto di non aver compreso per bene le motivazioni che stanno alla sua origine: non si capisce perchè i genitori scelgano di annientare così i figli e non si capisce perchè questi non abbiano tentato prima la fuga; non se ne capiscono, in sintesi, i presupposti.
L’unica cosa che sentiamo con estrema sicurezza è che c’è molto di vero in essa e in questo film, qualcosa che riguarda da vicino tutti noi, che tocca profondamente non solo i retaggi della nostra infanzia e del nostro passato, ma soprattutto il nostro presente, diventando metafora impietosa della società in cui percepiamo di vivere.
E se appuriamo questa certezza, più che un film drammatico, Kynodontas è un film horror.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento